La recente decisione del Comune di Bologna di distribuire pipette per il consumo di crack nell’ottica delle politiche di riduzione del danno ha acceso un ampio dibattito pubblico. L’iniziativa si inserisce nell’ambito delle politiche di riduzione del danno, riconosciute dai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), ma spesso percepite come controverse; un ambito che vede in prima linea le cooperative sociali, impegnate in coordinamento con gli Enti locali e le Aziende sanitarie nella gestione di servizi di contrasto e prevenzione alle dipendenze. Ne abbiamo parlato con Marco Sirotti, psicologo e coordinatore dell’area dipendenze del Gruppo CEIS di Modena – realtà che da oltre quarant’anni opera nella prevenzione, cura e riabilitazione delle dipendenze e che aderisce a Confcooperative Terre d’Emilia – per comprendere meglio rischi, opportunità e prospettive di questi interventi.
Dottor Sirotti, negli ultimi giorni si è parlato molto della distribuzione di pipette per il consumo di crack a Bologna. Come legge CEIS questo episodio e quali rischi o opportunità vede in iniziative preventive di questo tipo?
Occorre partire da un dato: il crack è diventato negli ultimi anni una delle emergenze principali nelle città emiliano-romagnole. La sostanza è estremamente diffusa, facilmente reperibile e ha un prezzo in continua discesa, tanto che oggi è accessibile anche a chi vive in condizioni di marginalità. I rischi sono altissimi: non solo i gravi danni neurologici e psicologici, ma soprattutto la dipendenza quasi immediata, molto più forte rispetto alla cocaina in polvere da cui il crack deriva. Inoltre, fumare crack provoca escoriazioni e sanguinamenti delle mucose della bocca: il consumo avviene spesso in gruppo, e la condivisione delle pipe diventa così veicolo diretto di trasmissione di HIV, epatite e altre infezioni ematiche.
Le pipette distribuite in questi contesti hanno dunque una funzione preventiva, perché riducono il rischio di contagio. Non si tratta di azioni improvvisate: le unità mobili lavorano da trent’anni con operatori specializzati che conoscono i consumatori, instaurano con loro una relazione di fiducia e riescono a proporre questi strumenti in un contesto di cura. Spesso sono gli stessi consumatori a richiederli, perché riconoscono nell’operatore un interlocutore affidabile. È un punto cruciale: chi vive per strada raramente si rivolge spontaneamente a un consultorio o a un servizio sanitario, ma grazie a questi contatti viene progressivamente inserito in percorsi di assistenza. Non è solo una distribuzione di presidi sanitari, ma un modo per creare un aggancio e aprire un canale con persone che altrimenti resterebbero escluse da qualsiasi intervento.
Alcuni temono che queste pratiche possano legittimare o addirittura incentivare il consumo. Qual è la vostra posizione?
Questo timore nasce da una visione ormai superata. Già negli anni ’90 si discuteva se lo scambio di siringhe sterili potesse “spingere” le persone a drogarsi: la storia ha dimostrato l’opposto, ovvero che ha contribuito a ridurre drasticamente i contagi da HIV. La stessa logica vale oggi per il crack. Una recente ricerca condotta a Bologna dal professor Raimondo Pavarin, docente universitario ed ex responsabile dell’Osservatorio Epidemiologico sulle Dipendenze dell’Usl, ha confermato l’efficacia di questi strumenti. Le persone che ricevono le pipette sono già consumatori: non iniziano perché ricevono un presidio.
È importante chiarire che la riduzione del danno non equivale a legittimare l’uso delle sostanze: significa riconoscere la realtà dei consumi in atto e ridurne gli effetti più gravi, sia per i singoli che per la collettività. Pensiamo al peso che avrebbe, in assenza di questi interventi, la diffusione di malattie infettive trasmissibili. Bologna ha una lunga tradizione in questo campo, anche attraverso le funzioni comunali: qui gli interventi sono frutto di un coordinamento tra servizi sanitari, enti locali e associazioni, non di scelte isolate. La Regione convoca regolarmente tutti gli attori coinvolti, da Piacenza a Rimini, per assicurare coerenza ed efficacia. Parlare oggi di incentivi o di legittimazione significa ignorare trent’anni di evidenze scientifiche e di buone pratiche che hanno dimostrato l’utilità di questi strumenti.
Le politiche di riduzione del danno, quindi, si affiancano e non sostituiscono gli interventi terapeutici e riabilitativi. Come si possono trovare i giusti equilibri?
Il sistema delle dipendenze oggi è strutturato su più livelli, che devono lavorare in sinergia. Con i più piccoli la prevenzione riguarda soprattutto la gestione delle emozioni, delle frustrazioni, della capacità di costruire relazioni sane. Con gli adolescenti si può affrontare in modo più diretto il tema delle sostanze e dei loro effetti. Parallelamente, le politiche di riduzione del danno intervengono sulla popolazione già attiva nel consumo, riducendo i rischi immediati e creando un aggancio con i servizi. Quando la dipendenza è conclamata, esistono trattamenti ambulatoriali e comunità terapeutiche residenziali, spesso specializzate per sostanza (cocaina, alcol, doppia diagnosi). È un approccio a 360 gradi: dalla prevenzione universale, alla riduzione del danno, fino alla cura intensiva. Solo così si può rispondere alla complessità del fenomeno.
Il CEIS da anni lavora su più fronti. Quale valore aggiunto portano le cooperative sociali in questo tipo di sfida?
La cooperazione sociale ha un ruolo peculiare: integra gli aspetti sanitari con quelli sociali ed educativi. Una dipendenza non colpisce mai solo la persona, ma anche la sua famiglia, la rete di amici, il contesto in cui vive. Le cooperative, in stretta connessione con le AUSL e i servizi pubblici, garantiscono interventi che tengono insieme queste dimensioni.
Un esempio concreto sono i drop-in, strutture diurne che accolgono persone senza fissa dimora o allontanate dalla propria famiglia, offrendo non solo supporto sanitario, ma anche servizi di base come un pasto caldo, una doccia o la possibilità di lavare i vestiti. Non sono luoghi di assistenza passiva, ma punti di accesso fondamentali per creare percorsi di reinserimento e di cura.
Il CEIS, inoltre, è parte di reti nazionali ed europee: i suoi modelli sono stati adottati anche in Belgio, Olanda e Polonia. Questo dimostra come la cooperazione sappia innovare e portare valore aggiunto, radicandosi nel territorio ma dialogando al tempo stesso con esperienze internazionali.
Guardando al futuro, quali sono secondo lei le priorità su cui il territorio emiliano-romagnolo dovrebbe investire per rafforzare la lotta alle dipendenze?
La prima priorità è preservare e rafforzare il sistema di cura che in Emilia-Romagna rappresenta un’eccellenza riconosciuta anche a livello europeo. Negli ultimi decenni si è costruito un modello che tiene insieme prevenzione, riduzione del danno e riabilitazione, e va difeso dalle contrazioni di risorse. La seconda sfida è la prevenzione precoce: sempre più giovani si avvicinano alle sostanze a causa di fragilità emotive e relazionali, unite a una facilità di reperimento senza precedenti. Oggi le droghe non si trovano solo nei parchi, ma possono arrivare a casa con i corrieri, o attraverso il dark web sotto forma di nuove sostanze sintetiche. Questo scenario richiede interventi educativi sin dai primi anni, già dagli asili nido, e un rafforzamento delle politiche di prossimità.
Infine, serve mantenere viva la capacità di lavorare in rete. In Emilia-Romagna la Regione coordina regolarmente gli interventi, mettendo insieme operatori di strada, medici, educatori, cooperative. È questa integrazione che permette di non lasciare indietro nessuno, e che deve continuare a essere il punto di forza per affrontare una sfida in continua evoluzione.
A cura dell’ufficio stampa e comunicazione di Confcooperative Emilia Romagna